IL PIACERE DELLA LETTURA - LIBRI AL BIVIO
Rubrica aperiodica a cura di Federico Smidile Costa.
AREL
IL DOVERE DELLA SPERANZA. LE GUERRE, IL DISORDINE MONDIALE, LA CRISI DELL’EUROPA E I DILEMMI DELL’ITALIA.
Romano Prodi resta una delle voci più ferme e lucide della vita pubblica italiana. E ne fornisce ulteriore prova in questo libro, dove dialoga in maniera serrata con Giannini. Il giornalista spesso inquadra nel dettaglio le questioni. Non si tratta di un’intervista con domande e risposte ma di un incontro alla pari nel quale Prodi spiega a tutto campo la sua visione. Si parla del passato, delle tante esperienze del Professore, ma non ci si limita a questo. Il presente viene analizzato nel dettaglio e il futuro è, per così dire, sempre presente nel discorso. Un discorso che vede Prodi non nascondere nulla delle criticità che stiamo vivendo, e anche dei possibili errori del passato. Il primo di questi errori riguarda il tentativo di esportare la democrazia. Ovviamente Prodi coltiva in ogni momento il valore della democrazia liberale. Di questa democrazia liberale in crisi, contestata e aggredita anche al suo interno da forze populiste e di tendenza autoritaria. Ma che resta il cardine del nostro viver civile. Quella democrazia che è l’aspirazione di coloro che vivono in regimi illiberali. Basti ricordare quanto diceva e scriveva Alexei Navalny, in Patriot. La mia storia – il testamento del grande oppositore di Putin – e ciò che ritiene indispensabile per la Cina Yang Jisheng, in Lapidi. La Grande Carestia in Cina. Entrambi ritengono che il risultato finale della lotta contro le dittature debba esser proprio un sistema democratico, con poteri equilibrati e controllati, con economia libera ma non selvaggia. Il ritratto proprio della democrazia di cui parla Prodi. Ma l’ex Presidente del Consiglio è allergico alle ideologie e non ritiene che i nostri valori, che pure dobbiamo riconoscere e difendere, possano e debbano essere imposti al mondo. La democrazia non è una cannoniera, non si esporta come una merce e non si forza l’altro ad accettare qualcosa che gli è estraneo, e che con il nostro atteggiamento aggressivo non possiamo che rendere nemico. La democrazia è un ponte, dice Prodi, sul quale passa di tutto: dalle auto, ai camion alle biciclette. Nessuno ha diritto maggiore sugli altri, nessuno può pretendere di imporsi. Non che Prodi non auspichi l’estensione dei valori democratici, ma gradualmente, per volontà dei popoli e dei Paesi che ora non li riconoscono. È chiaro che per Prodi la democrazia è un valore superiore agli altri, ma è anche chiaro che la forza, l’aggressione, la mancanza di ascolto e dialogo, non porterà mai da nessuna parte. Per questo è fortemente critico verso Bush jr., verso Blair, per la sconsiderata guerra in Iraq, ma anche verso Macron, e le sue ubbie che lo spingono a teorizzare un intervento di terra francese (con quali truppe si domanda ironicamente Prodi), contro Putin. Costoro, e molti altri, non hanno fatto che danni propria a quella democrazia di cui si sono autonominati rappresentanti. È con il costante, paziente, lavoro di mediazione e di ascolto che si migliorano le condizioni di vita dei popoli, che si rafforzano, o fanno nascere, i diritti umani. Non è la forza a poter fare bene, ma il lavoro costante e saggio. Prodi rivendica come uno dei momenti cardine di questa concezione de-ideologizzata della politica l’ingresso dei Paesi dell’Europa orientale nell’UE. Al contrario di quanto in tanti affermano questo è un successo enorme dell’Europa. In pochi anni, pur tra difficoltà e colpi di freno, questi Paesi che erano usciti dalla dittatura comunista sono entrati, liberamente, con entusiasmo si può dire, nell’UE, che ha saputo convincere dei propri valori. Si tratta, per Prodi di un processo che non si fermerà. Non vi saranno altre exit dopo quella britannica, e, nonostante le pulsioni autoritarie di Orban, sarà la democrazia a prevalere e questo è un successo europeo che Prodi vanta. Ma non si nasconde le debolezze, le timidezze, i fallimenti europei. Soprattutto le occasioni perse. Le bizze francesi e tedesche, la perdita di peso della Commissione rispetto al Consiglio (che rappresenta i Governi nazionali), la tragica mancanza di una politica estera e di difesa comune che renda l’Europa soggetto attivo e non spettatore di quanto accade in un mondo pluricentrico, multipolare, confuso, dove prevalgono imperi militari ed economici, e dove la dissuasione non può essere ignorata. Non si tratta di “fare la guerra”. Prodi non è un pacifista disarmato ma ritiene la guerra un danno da evitare per quanto possibile. Ricorda la sua contrarietà ai bombardamenti di Belgrado del 1999, ammettendo che forse la sua visione in quel momento era “ingenua”, ritiene che la guerra in Ucraina, di cui Putin porta la responsabilità (e che finirà solo quando decideranno USA e Cina assieme), sia il punto terminale di un processo fatto di errori e omissioni anche occidentali. È sempre quel metodo di dialogo e di confronto di cui Prodi parla in tutto il libro, che deve essere utilizzato. Ma solo un’Europa unita e forte può evitare di essere semplice spettatore, soggetto economico, nano politico irrilevante. C’è un capitolo che colpisce molto chi scrive queste righe: quello che riguarda la tragedia in Medio Oriente. Prodi ama Israele, difende con forza il diritto di quello Stato a esistere e in pace. Ricorda un episodio significativo. Al termine di una visita ufficiale in territorio palestinese, l’auto di Prodi viene fermata da soldati israeliani che fanno scendere tutti dalle auto e chiedono i documenti. Un giovane militare, armato sino ai denti, vede i documenti di Prodi, lo riconosce, sia avvicina e lo abbraccia. Prodi resta turbato dalle armi che sente così vicine ma comprende che quel giovane lo sta abbracciando per ringraziarlo di quello che fa l’Italia, di quello che fa l’Europa, per il suo Paese minacciato. Ma ora Israele è cambiato, si è irrigidito, è cresciuta la violenza e i principi difensivi sono affiancati da altri, molto peggiori. Hamas ha compiuto un massacro sconvolgente il 7 ottobre 2023. La risposta di Israele era prevedibile ma Benjamin Netanyahu non sta pensando alla difesa del suo Paese. Vi è un immenso dolore in quello che Prodi dice, il dolore di speranze coltivate e perdute. Ma vi è anche una conoscenza della situazione generale che andrebbe studiata e letta costantemente da tanti analisti superficiali. Il conflitto tra Hamas e Israele si colloca, infatti, in un contesto più ampio. È tutta la zona limitrofa che sta franando. Prodi ricorda una guerra civile atroce di cui nessuno parla: quella che da anni sta distruggendo il Sudan, grande Stato confinante con l’Egitto. In questa guerra fratricida sono vittime i civili, che fuggono. Sinora, ricorda Prodi, sono almeno cinque milioni i profughi. In tanti varcano il confine con l’Egitto, e si trovano in un immenso deserto, abbandonati a sé stessi. Il Governo egiziano, infatti, non solo non permette che queste persone si avvicinino alle città, ma vieta con la forza anche solo l’erezione di baracche o altri minimi ripari. Mentre questa crisi umanitaria dimenticata provoca morte e disperazione, la pressione dei migranti mette in crisi stati come il Mali o il Ciad, ai quali non può portare soccorso nemmeno l’armata francese che si trova lì. Ecco, un’Europa che avesse compattezza e capacità di politica estera e di difesa, sarebbe essenziale in quelle zone, come garanzia e sostegno. Invece lì come in Libia, o in Siria, prevale la disgregazione e si rafforzano potenze locali come la Turchia e la Russia con una sempre maggiore instabilità e con sempre maggiori sofferenze per i popoli. Il dialogo, come detto, è serrato su molti temi, compresa la politica italiana, dove Prodi non nasconde giudizi e preoccupazioni. In generale si tratta di un libro che andrebbe tenuto sul comodino, e aperto spesso e volentieri, non solo dal lettore comune, per dirla con Virginia Woolf, ma da coloro che la politica fanno, o provano a fare. Prodi non è un profeta e non pretende di essere infallibile, ma sarebbe molto utile per tanti ascoltarlo e riflettere su quanto scrive e dice. Sarebbe un utile crescita per tanti.
(Federico Smidile)

Dal 5 agosto al 4 gennaio. Tanto è servito per leggere questo poetico, crudele, erotico, sogno. Murakami unisce sempre realtà e sogno, crea piani diversi e usa le arti in maniera magistrale. Qui cita Janacek, Proust, la Bibbia, l'antico Giappone e il mondo di oggi. Richiede lentezza e pazienza. Ma dopotutto è la lettura a chiedere questo. Quando leggi devi essere stabile, fosse pure in piedi su un bus. Devi astrarti dalla realtà ed entrare in comunicazione con l'autore e i personaggi. Devi conversare con loro, soprattutto ascoltare. E tutto questo, come un buon vino, va assaggiato e goduto con lentezza, per far respirare le parole. Murakami è l'esempio di ciò che dico. E merita, da classico moderno, di essere ascoltato. Grazie Maestro (grazie Cri)
Federico Smidile Costa

Ultimo dei racconti di Gente di Dublino, viene citato nella scena finale di La stanza accanto. Fosse solo per questo, ma non è solo per questo, il malinconico Canto di Natale irlandese merita di essere letto. Siamo lontani da Ulisse, ma vicini a noi e alla malinconia dei ricordi
ROBERT BRASILLACH
Sei ore da perdere
Premessa. Il libro è molto bello e merita. Seconda premessa: è sgradevole dover parlare bene di un libro del fasxista, antisemita, razzista, collaborazionista Brasillach. Ma non si può fare altrimenti. La Parigi dell' occupazione è narrata in maniera vivida dall'ex prigioniero di guerra che hai sei ore da vivere nella capitale. E tutto il contenuto è fortemente Simenon, sia per la parte "giallo alla Maigret", sia per quella dei "romanzi duri" dello scrittore belga. Con in più la visione malinconica del Brasillach maturo che vede la terrificante confusione nella quale si dibatte la Francia, al di là delle divisioni politiche. In più troviamo, come in Modiano, diverso ma simile, il senso del ricordo, della memoria e dell'immaginazione (quasi à la Proust se Brasillach potesse essere paragonato ad un ebreo omosessuale, due categorie invise allo scrittore fucilato nel 1945).
Insomma, l'uomo Brasillach era una schifezza ma la sua opera merita di essere letta. Così come quella di un altro nefasto ma grande come Drieu la Rochelle

Macbeth
Una delle tragedie più squassanti di Shakespeare. Che leggo e rileggo. Macbeth e Lady Macbeth sono l'ambizione e il volto demoniaco del potere. Un volto che è quello di tutti. Shakespeare qui non è gentile, non ti spinge con garbo a spostarti verso una diversa prospettiva. Qui ti, si, prende a ceffoni. Guarda di chi ti fidi! Di te stesso. Pensi di essere immune dal veleno di Macbeth? Come ti sbagli! E questo lo dice in forma sublime, in un racconto nero, che lascia senza fiato e che ispira tanti scrittori successivi (Tolkien in primis).
Una tragedia cupa, dove il dubbio resta anche sui "buoni" e dove la vita è una storia raccontata da un idiota e piena di strepito vano.

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Molto interessate .. ...
ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE
Da Macbeth ad Alice il salto è lungo ma anche questo picciol libro è un capolavoro. Non per bambini, nonostante la versione edulcorata di Disney. Il racconto è un sogno divertente e inquietante al tempo stesso. Il bruco e il gatto sono allegramente cupi e tutto il sogno è venato della malinconia del risveglio e della crescita di Alice, da bambina felice a donna.
Il Tempo e la Morte ridacchiando dietro questi giochi rutilanti immaginati da un uomo adulto sin troppo attratto dalle bambine. Era una lettura da rifare e merita.

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Un capolavoro!
LA MARCIA DI RADETZKY
di Josph Roth
Ci sono voluti esattamente due anni per rileggere questo libro. Non perché non fosse bello ma perché un tramonto, come un buon vino, va delibato lentamente. Roth, come il suo amico Zweig, racconta la fine del mondo di ieri. La fine dell'impero asburgico, il lento declino dell' Imperatore eterno, Franz Herre, e della famiglia Von Trotta, legata all'impero. Un impero rigido, educato anche nei peccati, ma destinato a morire. C'è malinconia e ironia in quelle pagine ma anche un rimpianto. Siamo nel 1932. Tra pochi mesi Hitler sarà Cancelliere e inizierà la fine del mondo. Roth capisce e fugge mentre Zweig si illude. Nessuno dei due vedrà il nuovo mondo. Roth muore a Parigi nel 1939, Zweig si uccide nel 1941, non avendo la forza di vivere in un mondo che non è il suo. Entrambi aiutano a creare quel Mito asburgico che esiste ancora oggi. In una nostalgia di un mondo "per bene" più irreale che altro ma che conforta come un sogno di bambini

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