Pëtr Alekseevič Kropotkin, anarchico russo, diceva: se riuscissimo a metterci nei panni degli altri, tanto da sentire gli altri come se fossimo noi, non avremmo più bisogno di regole, di leggi. Perché agiremmo per il sentire comune e quindi non faremmo mai qualcosa contro qualcun altro che sentiremmo come fosse noi.

 


Tratto da https://nuovidesaparecidos.net/2025/01/07/ancora-una-prigione-degli-orrori-a-kufra-in-un-assordante-silenzio-sullinferno-della-libia/

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Ancora una prigione degli orrori a Kufra. In un assordante silenzio sull’inferno della Libia

di Emilio Drudi

 

Il 2025 si è aperto con le immagini terribili di una ragazza etiope torturata in Libia da una banda di trafficanti per indurre la famiglia a pagare quanto prima un riscatto di 6 mila dollari per lasciarla andare. Prima una foto in cui la giovane appare inginocchiata, legata e imbavagliata, con alle spalle decine di altri prigionieri costretti a tenere la testa china e nascosta tra le braccia, e poi le sequenze di alcune fasi della tortura, con lei appesa al soffitto per le braccia e qualcuno che la colpisce ripetutamente a frustate mentre qualcun altro le getta periodicamente dell’acqua sul viso e in testa per impedirle di perdere conoscenza.

La ragazza – come ha scoperto la Ong Refugees in Libya – si chiama N. J. ed ha appena 20 anni.

La Libia è diventata un cimitero per i migranti: un luogo dove la disumanizzazione del nero non è né nascosta né condannata. I trafficanti operano apertamente, favoriti dall’impunità o addirittura dalla complicità di sistemi che chiudono gli occhi su questo orrore. E il mondo guarda dall’altra parte. La Libia è l’ombra dell’Europa, la verità non detta della sua politica migratoria: un inferno costruito sul razzismo arabo e alimentato dall’indifferenza europea. La chiamano controllo delle frontiere, ma è crudeltà vestita di burocrazia”

non solo si “chiudono gli occhi” di fronte all’orrore ma si arriva a negarlo questo orrore. Come accade quando si perseguono le Ong “responsabili” di rifiutarsi di seguire le disposizioni delle autorità di Tripoli, impartite in aperto contrasto con il diritto internazionale e volte a riportare i naufraghi/migranti nell’inferno della Libia. Oppure quando si maschera la sempre più dura politica di chiusura e respingimento contro i migranti con il pretesto di voler “fare la guerra ai trafficanti”. Una ben strana “guerra”, che ignora l’indifferenza e le complicità di importanti esponenti anche istituzionali del “sistema Libia” in questo traffico di morte, più volte denunciate e documentate dai rapporti dell’Onu e di numerose Ong, ma regolarmente “silenziate”. O, ancora, quando si cerca di affermare che, in fondo, la Libia è un “paese sicuro”.

Ritorna, allora, il tema di sempre. Alla politica sull’emigrazione adottata da Roma e da Bruxelles non importa nulla di tragedie come quella di N. J. e dei suoi 50 compagni. Nulla delle migliaia che vivono la stessa “sofferenza infinita”. Conta solo che i profughi/migranti non arrivino neanche a bussare alle porte della Fortezza Europa. A qualsiasi costo e qualunque sia il destino che li aspetta.

Andrea Colombo, Il Manifesto 


Senza proclami, quasi sottovoce, Sergio Mattarella ha pronunciato nel messaggio di capodanno uno dei discorsi politicamente più forti da molti anni. Ha ricordato la Liberazione che abbiamo alle spalle, quella arrivata all’ottantesimo anniversario, con il suo frutto, la Costituzione.

Ma ha soprattutto indicato quella che abbiamo invece di fronte, ancora in larga parte incompiuta: «Liberazione da tutto ciò che ostacola libertà, democrazia, dedizione all’Italia, dignità di ciascuno, lavoro, giustizia». Non è impresa che possa essere delegata ai politici, sui quali il giudizio del presidente, espresso nel precedente discorso ai vertici istituzionali, non suonava lusinghiero. Spetta alla società civile, sola destinataria del messaggio: «La speranza siamo noi. Il nostro impegno. La nostra libertà. Le nostre scelte».

In un momento che lui stesso definisce «difficile» e si tratta, stando allo spessore del Cahier des Doléances che snocciola, di un eufemismo, il presidente trova motivi di fiducia e di ottimismo. Di speranza, appunto. Li rintraccia in basso, non al vertice ma alla base della piramide sociale: nei medici che si sbattono in condizioni disperate, negli insegnanti che non se la vedono meglio, nel «coraggio di chi ha saputo trasformare il suo dolore in una missione per gli altri», come Sammy Basso, nel «rumore delle ragazze e dei ragazzi» che si ribellano ai femminicidi, negli operatori che nel disastro delle carceri tentano di turare le falle con le dita, nel volontariato.

Il presidente stavolta non ha risparmiato sferzate a chi governa. Al viceministro Andrea Delmastro, quello che se la gode quando i detenuti «non li lasciamo respirare», le orecchie devono aver fischiato fino ad assordarlo ascoltando il primo cittadino sottolineare una visione della pena diametralmente opposta: «I detenuti devono poter respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti all’illegalità e al crimine».

La premier Giorgia Meloni può solo far finta di non capire che il patriottismo esaltato dal presidente non ha vincoli di parentela con il suo, essendo anche quello di chi «con origini in altri Paesi ama l’Italia, ne fa propri i valori costituzionali e le leggi». Per ognuno dei successi magnificati dai governanti, Sergio Mattarella ha citato la sua controparte oscura, come i salari da fame e il precariato che accompagnano i dati soddisfacenti sull’occupazione.

Ma il senso più profondo del messaggio augurale del presidente della repubblica agli italiani non va rintracciato nei pur acuminati colpi di stiletto. Il discorso di capodanno va letto a fianco di quello rivolto due settimane fa ai vertici istituzionali. Lì, parlando ai politici, il presidente aveva denunciato il circolo vizioso nel quale un intero ceto politico ha chiuso la democrazia, indebolendola sino a metterla a rischio. La deludente, distratta e disattenta reazione a quella sirena d’allarme non deve averlo reso più tranquillo. Qui, rivolto alla società civile, pur non nascondendosi la minaccia annidata nelle «contrapposizioni radicalizzate», nelle «pubbliche opinioni lacerate», nelle «faglie profonde che attraversano le nostre società» intravede anche un elemento di speranza e c’è da sospettare che lo consideri l’unico o almeno quello principale.

Segnalando anche le due stelle polari che possono e devono orientare il percorso, il «rispetto per gli altri, per la vita, per la dignità della persona» e la capacità di operare per il bene comune, quello di Mattarella è stato a modo suo un appello. Una chiamata destinata ai soli che possono cambiare le cose e portare avanti la Liberazione rimasta a metà del guado: le persone, i cittadini. Il popolo.

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È sciocco pensare che si debbano leggere tutti i libri che si comprano, come è sciocco criticare chi compra più libri di quanti ne potrà mai leggere. Sarebbe come dire che bisogna usare tutte le posate o i bicchieri o i cacciavite o le punte del trapano che si sono comprate, prima di comprarne di nuove. Nella vita ci sono cose di cui occorre avere sempre una scorta abbondante, anche se ne useremo solo una minima parte. Se, per esempio, consideriamo i libri come medicine, si capisce che in casa è bene averne molti invece che pochi: quando ci si vuole sentire meglio, allora si va verso "l’armadietto delle medicine" e si sceglie un libro. Non uno a caso, ma il libro giusto per quel momento. Ecco perché occorre averne sempre una nutrita scelta! Chi compra un solo libro, legge solo quello e poi se ne sbarazza, semplicemente applica ai libri la mentalità consumista, ovvero li considera un prodotto di consumo, una merce. Chi ama i libri sa che il libro è tutto fuorché una merce.

Umberto Eco - citazione attribuita